Che cos’è Auschwitz? Domanda decisamente complicata che richiede molto più di una semplice risposta. Non è possibile racchiudere in un termine tutto il dolore, la sofferenza e le torture che migliaia di persone hanno dovuto subire. Nei libri è definito un “inferno”, termine tra i più rappresentativi dei campi di concentramento ma non descrive a pieno le atrocità che hanno accompagnato il genocidio. È un cimitero per ogni essere umano transitato lì che non avrà mai una tomba. Ma più di ogni altra cosa Auschwitz è un male assoluto: non è una definizione precisa di male ma li raccoglie tutti. Questa è ancora una risposta vaga. Dalla storia apprendiamo gli avvenimenti del passato mentre la filosofia ci aiuta a comprenderne motivazioni e cause, ma solo e soltanto la memoria, le esperienze e i racconti dei sopravvissuti ci consentono di capire, quanto più la nostra empatia ci permette, l’angoscia e il tormento che quegli anni bui e duri hanno portato. Un chiaro esempio di tutto ciò sono i ricordi agghiaccianti di Pietro Terracina e Samuel Modiano. Sono soprattutto rabbia e compassione che emergono dalle loro testimonianze: racconti di padri che tentano di difendere i propri figli con conseguenze atroci; le ultime parole scambiate con famigliari, parole di incoraggiamento, di conforto per quanto potessero servire in uno scenario del genere; la selezione delle persone ancora abili al lavoro e la morte immediata per gli scartati; le urla disperate di madri alle quali sono stati strappati i neonati dalle braccia protettive con una indifferenza sconvolgente; il tatuaggio e la rasatura forzata. Sami e Pietro raccontano un Auschwitz simile, visto da occhi di adolescenti, in grado di comprendere la crudele realtà nella quale erano stati catapultati senza un perché; l’Auschwitz delle sorelle Alessandra e Liliana Bucci è completamente diverso: ogni ricordo, ogni sensazione è filtrato con l’ingenuità che caratterizza l’animo delle bambine che hanno vissuto queste vicende, bambine che in pieno inverno giocavano a farsi la guerra con palle di neve tra i cadaveri, ignare del vero conflitto esistente al di là di quelle mura. Come si può condannare dei bambini innocenti, bambini senza passato, a quella vita? Quale colpa potevano mai avere tutte quelle persone per essere sradicati dalle loro vite, dai loro cari, dal conforto della propria casa e dover fare di quel inferno la nuova quotidianità? Per quel tempo la risposta era semplice: ogni essere umano arrestato e deportato era “colpevole” di essere di razza ebraica, una razza che neanche esiste. Tra le migliaia di persone troviamo anche delle minoranze come gli omosessuali, i Rom e Sinti, Zingari oppure i prigionieri politici, ognuno identificato con un contrassegno colorato che variava a seconda del “crimine”. Perciò Auschwitz richiama alla mente ciò che è stato, qualcosa che non sarebbe mai dovuto avvenire, che non andrebbe neanche pensato; è un tassello fondamentale della nostra storia, è prova di cosa la nostra crudeltà e indifferenza possono portarci a fare e ci ricorda che non ci sono razze superiori o inferiori, ma che non esistono proprio. La memoria fa sì che le 6 milioni di persone non sono morte in vano ma le tiene vive nei ricordi, con la speranza che la linea che è stata oltrepassata con questo genocidio non si valichi mai più.